Essere donna: un differenza che esclude

Ruth Ozekidi Corrado Laronga

Quando si pensa a ciò che è altro dall’uomo, spesso ci si sofferma esclusivamente sul mondo animale e vegetale, dimenticandosi che, per molti secoli, altro dall’uomo è stata anche la donna. Essere altro di per sé non costituirebbe nulla più che una diversità, sia essa visibile o meno, ma, in una società che intende la differenza solo in senso oppositivo – escludente, diventa quasi una forma di handicap, per giunta impossibile da combattere perché congenito.

Una vasta gamma di prove a sostegno della subalternità di alcune differenze rispetto ad altre sono state fondamento delle scienze positiviste delle quali Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero furono ricercatori, in ambito dell’antropologia sociale e della criminologia del primo Novecento.
Nonostante il grande successo iniziale delle teorie evinte da esperimenti quantomento strampalati, le conclusioni lombrosiane persero ben presto qualsiasi seguito e credibilità, lasciando il posto a studi che dimostravano l’assenza di fondamenti scientifici atti a dimostrare la superiorità di un essere umano rispetto ad un altro, a prescindere dal sesso, dalla razza o dalla dimensione del cranio.

Eppure, in un modo o nell’altro, le differenze di genere e di razza hanno continuato e tuttora continuano a essere considerate, in larga parte, segno di una inferiorità che vive, spesso malcelata, negli occhi di chi guarda. La scrittrice nippo-americana Ruth Ozeki, a tal proposito, apre così il suo capolavoro Carne1:

Mi chiamo Jane Takagi-Little. […] Al momento del battesimo, mia madre fu colta da subitaneo orientale terrore al pensiero che sua figlia portasse per tutta la vita un cognome insignificante come Little, così proprio all’ultimo momento si impuntò perché fosse aggiunto anche il suo. Takagi è un nome importante, letteralmente, comprende l’ideogramma di «alto» e quello di «albero». […] Malgrado fosse un Little, mio padre era un uomo alto, io stessa sono quasi un metro e ottanta. Il che fa di me una freak, in Giappone. Ci ho vissuto un po’, e ho tentato di adeguarmi, ma ben presto ci ho rinunciato: mi sono tagliata i capelli cortissimi, ho tinto di verde alcune ciocche, e mi rivolgevo agli uomini parlando in giapponese. Mi sentivo a mio agio. Plurisessuale, plurirazziale, perversa, nella metropolitana di Tokio torreggiavo sulle teste liscie e tutte uguali dei pendolari. Ironia della sorte, il vero choc culturale l’ho avuto quando ho lasciato il Giappone e mi sono trasferita qui a New York, nell’East Village. A un tratto ebbi l’impressione che tutti fossero strani, esattamente come me2.

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Pluralismi che da un lato arricchiscono e dall’altro sono causa di choc culturali, etici ed emotivi, a dimostrazione che alcuni retaggi rimangono difficili da superare completamente. Ad ogni modo, la pluridifferente Jane Takagi-Little, una delle due protagoniste del testo, è produttrice creativa di una trasmissione televisiva dal titolo Una moglie americana!, una sorta di reality show dove il rapporto tra carne umana e animale è fondamentale: in ogni puntata una donna americana florida ma non grassa deve cucinare prelibati tagli di carne da presentare ai telespettatori insieme all’American way of life, fatto di cucine moderne, mariti perfetti e tanti figli adorabili.

Ben presto, tuttavia, Jane comincia a convivere faticosamente con tutta la finzione che settimanalmente vende ai telespettatori e a riflettere sulle numerose anomalie di un mondo (quello dello show) molto lontano dalla realtà. Una moglie americana! rappresenta una sorta di microcosmo ideale e decisamente artefatto dove la carne femminile presenta se stessa e quella animale secondo un copione molto rigido, che funge da palcoscenico sul quale i personaggi recitano una versione migliore e più soddisfacente di se stessi: le belle mogli americane che cucinano tagli di carne prelibati in moderne cucine, dove i bambini giocano e i mariti aiutano, sono la messa in scena del mondo ideale al quale gli spettatori devono aspirare. Le donne, anch’esse appetitose tagli di carne viventi, paiono poco più che oggetti, cosa che Ruth Ozeki non dimentica mai di sottolineare in maniera spesso sottile, ma spietata: “Un primo piano ingrandì a tal punto la bottiglia di Coca che le dita sembravano rimpicciolite, infantili, mentre ne schiacciavano i fianchi morbidi.”3 Tale immagine crea un inquietante parallelismo tra la donna e la bottiglia di plastica, i cui fianchi morbidi per giunta vengono schiacciati da dita infantili. Non si tratta quindi, a ben vedere, di un oggetto qualsiasi, ma di un modello preciso e molto noto caratterizzato da fianchi morbidi, proprio quella caratteristica che fin dall’epoca preistorica viene collegata alla fertilità. Le dita che la toccano, inoltre, sono rimpicciolite dal primo piano della macchina da presa, al punto tale da sembrare quelle di un bambino. L’immagine che ne deriva è quindi quella di una donna intesa come un articolo finalizzato alla procreazione, ma Ruth Ozeki, pur sottolineando questo principio secolare – che affonda le sue radici addirittura nel Mito della Creazione -, sceglie di vestire la maternità di un ulteriore abito, ossia quello di causa di differenza non solo tra uomini e donne, ma anche tra donne e donne.

È infatti proprio intorno al tema della maternità che ruota il personaggio della casalinga giapponese Akiko, co-protagonista del libro, così presentata dall’autrice:

Quando si era sposata, aveva lasciato il lavoro per imparare a cucinare e prepararsi a fare la madre. […] John credeva profondamente nel pensiero positivo. […] Era convinto che se si fosse concentrata su pensieri positivi di maternità sarebbe rimasta incinta […] L’insistenza sulla carne, per farla ingrassare e stimolare la ripresa del ciclo mestruale, era parte integrante del training. […]Invece non funzionava. Akiko era in crisi con il pensiero positivo. Dopo cena, mentre lavava i piatti, andava in bagno, si piazzava davanti allo specchio e fissava la sua immagine riflessa. Dopo qualche istante cominciava a sentire la carne. Dapprima nello stomaco, come un animale vivo, poi risaliva implacabile fino all’esofago e infine le esplodeva in gola. Non riusciva a trattenerla. Non riusciva a trattenere nessuna vita dentro di sé.4

Quelle usate da Ruth Ozeki sono espressioni piuttosto forti: “prepararsi a fare la madre”, “farla ingrassare”, “training”, e dipingono l’immagine di una donna annichilita, sottomessa, ridotta quasi allo stadio di carne animale da far ingrassare per favorirne la capacità riproduttiva – evidentemente l’unica che conti davvero qualcosa.

Emblematica in questo caso è la figura del marito di Akiko, John, un uomo che misura la normalità della moglie sulla base di quelli che sono i suoi personali valori e bisogni di riferimento, prescindendo totalmente da quelli di lei, precipitandola così in un profondo stato di prostrazione che ne determina necessariamente la sottomissione. Ad ogni modo, è proprio la maternità che costituirà il punto di svolta del personaggio di Akiko, che nel corso del racconto evolve verso uno stadio nuovo: da donna sottomessa al marito, debole e umiliata, si trasforma in futura madre coraggiosa, che capisce di dover abbandonare al suo destino l’uomo che aveva sposato per poter crescere, lontano dalla sua influenza negativa, la creatura di cui è rimasta incinta.

Una sorte diversa tocca invece a Jane, emblema da un lato della diversità fisica e razziale e dall’altro della femminilità normale, un miscuglio disomogeneo di contrasti che contribuiscono a farne probabilmente il personaggio più complesso e ricco di tutta l’opera. La nippo-americana, troppo alta per i Giapponesi e troppo giapponese per gli Americani, dopo aver passato la sua infanzia a scendere a patti con la sua diversità, si trasforma in qualcosa che lei stessa finisce per non tollerare più, ossia una donna conforme al sistema di valori del mondo per cui lavora, un mondo in cui sa che «non c’è niente di vero»5. Eppure qualcosa di vero si annida ancora nei suoi ricordi d’infanzia, ed è qualcosa che parla di una differenza percepita come tale ma non ancora connotata razzialmente, qualcosa, insomma, di presente a livello inconsapevole, come ci dice in uno tra i passi più incisivi di tutto il libro:

Avrei dovuto capire che ero diversa perché quando giocavamo a cowboy con i bambini del vicinato io facevo sempre la principessa indiana. Ero molto alta, anche da bambina; vincevo gran parte delle battaglie e finivo sempre per litigare con un ragazzino di nome Farley, che diceva che vincevo per scherzo, gli indiani dovevano perdere. […] E adesso mi torna in mente un gioco che facevo ogni anno alla prima nevicata con la mia migliore amica, Polly. Non appena un sottile strato di neve ricopriva il terreno correvamo a prendere dei bastoncini e disegnavamo facce sull’asfalto della strada davanti a casa mia. Io disegnavo facce giapponesi, un cerchio per il viso, poi gli occhi, il naso e la bocca. Polly disegnava facce americane nello stesso modo. Solo gli occhi erano diversi. I miei erano due tratti svelti e sbiechi nella neve, mentre Polly doveva disegnare due piccoli cerchi interi. […] Probabilmente una qualche idea della differenza ce l’avevo, ma non aveva ancora assunto connotazioni razziali.6

È solo crescendo che le differenze smettono di essere qualcosa da disegnare sulla neve e cominciano a dividere gli esseri umani, catalogandoli, definendoli e quindi limitandoli, e connotandosi come elementi di superiorità o inferiorità che giustificano atteggiamenti discriminatori tuttora forti e difficilissimi da estirpare poiché radicati da secoli.

1 Ruth Ozeki, Carne (My Years of Meats), trad. it. di A. Nadotti, Torino, Einaudi, 1998.
2 Ruth Ozeki, Carne, cit., pp. 14-15.
3 Ruth Ozeki, Carne, cit., p. 25.
4 Ruth Ozeki, Carne, cit., pp. 45-46.
5Ruth Ozeki, Carne, cit., p. 37.
6 Ivi, p. 158.
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