Wall-e: una distopia d’animazione

wall-e

di Fabio Dellavalle

Wall-e si può definire un cartone animato distopico: un’altra perla inanellata dalla Pixar in quel filone di cartoon per adulti molto pregevoli. Il protagonista è un piccolo robottino che si aggira tra i resti di un mondo futuro (prossimo?) muto e devastato, ricoperto da grattacieli di immondizia, in compagnia di una blatta che lo segue ovunque. Esso/egli è un automa addetto alla rimozione dei rifiuti, ma dotato di una Spiritualità Intelligente, potremmo dire, contrassegnata da uno sguardo malinconico. Wall-e sembra infatti provare compassione per gli oggetti che non servono più e adora la scena d’amore di un vecchio film in videocassetta – simbolo di un passato ormai estinto. La sua solitaria routine è spezzata dall’arrivo di Eva, robot avanguardistico e super efficiente, inviato da un’astronave con la missione di cercare forme di vita sulla Terra. Dopo una fredda e scontrosa indifferenza da parte di Eva, il ghiaccio si scioglie grazie al calore di Wall-e, che la accudisce con cura anche se lei non è cosciente. I due personaggi finiranno per volersi bene: a dir poco suggestiva è la scena che riprende la danza luminosa dell’innamoramento nel buio siderale, simili a due insetti. Ma essi aiuteranno anche gli esseri umani a ricomprendere l’importanza del contatto fisico tra persone e con la realtà materiale, in un universo parallelo ridotto a touch screen.

Oltre al riferimento al cinema d’essai, anche la musica jazz che accompagna i fotogrammi produce una specie di effetto seppia retrò, peraltro straniante, dal momento che la storia è ambientata nel futuro. Altro aspetto importante della pellicola è il rapporto “moderno” che si instaura tra Wall-e ed Eva. In quanto robot, non hanno un genere vero e proprio. Tuttavia, i loro nomi ci suggeriscono che il primo sia maschio e la seconda femmina. La cosa interessante, però, è che essi non possiedono i caratteri stereotipati tradizionali, tipici – per esempio – dei vecchi cartoni Disney. Infatti, vediamo Wall-e svolgere lavori domestici come un perfetto casalingo; ha una personalità sensibile, romantica e affettuosa; a volte è un pasticcione. Eva, all’opposto, viene disegnata come decisa e autorevole, in un ruolo che, per l’immaginario disneyano apparterrebbe all’universo maschile.

Vita”, “terra”, “indifferenziato”: sono le parole chiave con cui si può riassumere il capolavoro d’animazione del regista Andrew Stanton. La prima è simboleggiata da una fragile pianticina, cresciuta chissà come in mezzo alle scorie post-apocalittiche della compagnia “Buy n Large”. Essa rappresenta l’unica forma di vita sulla Terra, in grado di riprodursi grazie alla fotosintesi clorofilliana. La specie umana, invece, è composta da passeggeri sovrappeso a bordo di una nave da crociera che viaggia nell’universo. Gli uomini, costantemente seduti e con gli occhi fissi su un monitor, hanno ormai quasi del tutto perduto l’uso degli arti, i cui muscoli sono atrofizzati. Gli esemplari Homo Sapiens rimasti sono serviti/schiavizzati da un complesso sistema di computer che, su ordine del capitano del vascello spaziale (o meglio del timone smart, versione 2.0 del noto Hall di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick), svolge ogni attività “vitale”. Le macchine, di fatto, regolano ogni momento della giornata di questi individui: dal cibo (beveroni ingeriti con cannuccia) alla toilette personale.

La terra è l’elemento primordiale per eccellenza, secondo solo all’acqua, da cui nasce ogni cosa. Ma all’interno della nave da crociera intergalattica, asettica quanto cibernetica, essa è considerata dalle macchine un “agente contaminante” da pulire immediatamente. E quando il capitano acquisisce informazioni ulteriori su questa strana sostanza, la curiosità verso un sapere e una dimensione dimenticati (l’agri-cultura) lo porta a scoprire il significato di altre esperienze scomparse quali “fattoria” e “festa rurale”. Tornare alla terra: è il messaggio principale del film.

Indifferenziato è, prima di tutto, il genere umano: una massa omologata dagli annunci di un altoparlante che invita/comanda di vestirsi ad esempio di «blu, il nuovo rosso». Il signore del proprio ex pianeta, ormai “defenestrato” dal suo regno, ha smarrito la linfa del pluralismo o alterità culturale – oltre che la biodiversità – cosicché si sposta sopra al suo “trono”, una poltrona fluttuante che gli permette di muoversi nell’astronave, alla quale è già stato tracciato un percorso obbligato sul pavimento. Tra l’altro, anche le macchine sbagliate, ossia difettose, potremmo dire “non allineate” alle direttive per cui sono state programmate, sono rinchiuse in speciali manicomi per robot. Esse aiuteranno Wall-e e Eva nel loro ammutinamento finale. Indifferenziata è anche la spazzatura che ha costretto l’umanità a lasciare la propria dimora e che, inoltre, Wall-e smista con estrema attenzione e dedizione, andando a raccattare le cianfrusaglie inutili del passato. Il suo è un “lavoro” simile a quello di altre figure (purtroppo non tratte da un’opera di finzione), come i cartoneros e pepenadores dell’America Latina: quando le “sentinelle dei rifiuti” sono i guardiani della Terra. Essi sono la testimonianza diretta e drammaticamente concreta di un mondo sommerso dagli scarti del consumismo. Come non pensare a questo punto a Italo Calvino il quale, urbanista di castelli di carte, durante il suo tour delle città invisibili, fa tappa a Leonia. Cinta all’interno di mura costituite da rifiuti, ogni giorno questa polis riparte da zero: al mattino tutto è nuovo, mentre gli oggetti vecchi vengono gettati via.
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Forse, in qualche angolo sperduto di universo – magari custodita proprio nel poco terriccio dentro a un vecchio scarpone finito in discarica – si nasconde una pianticella verde che, come la luce smeraldo del faro de Il grande Gatsby (riproposto al cinema da Baz Luhrmann nel 2013), offre la forza al protagonista per continuare risalire la corrente della vita. Come la stella polare che guida i naviganti durante la traversata sulle onde del mare tumultuoso della liquidità postmoderna, offrendo loro orientamento nel freddo buio della nera notte, nella speranza di trovare la terraferma alla fine del viaggio intergalattico: un senso alla storia e una direzione a un’umanità aliena e alienata. O, se non una pianta, per lo meno un seme.
Il film, infine, è anche un ottimo invito a riparare, invece di buttare via e sostituire col nuovo, come impone l’illogica logica dell’usa-e-getta, basata sul meccanismo dell’obsolescenza pianificata.
L’avventura umana può ricominciare. L’arte, come mostrano i titoli di coda, può nuovamente raccontare la vita, sempre che si salvaguardi il pluralismo culturale e la biodiversità: la ricchezza dell’Alterità.

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